“L’innovazione è un processo entusiasmante ma allo stesso tempo frustrante, in cui si lotta contro la nostra attitudine a non voler cambiare. L’innovazione ha il nobile obiettivo di portare un sistema a cambiare per poter sopravvivere all’interno di un conteso in continua evoluzione. Se dovessi spiegarlo a un bambino, direi che l’innovazione è avere il coraggio di fare tentativi”.
E di tentativi Alberto Mattiello ne ha fatti molti. Fino a trovare una formula vincente, quella che gli ha consentito fino a qui di pensare, provare, sperimentare, sbagliare, ridefinire, rivoluzionare. “Business Futurist” come lo definiscono in molti, innovation thinker, autore, imprenditore e speaker, Mattiello è originario di Verona ma trapiantato a Miami, Florida, dove si occupa di innovazione strategica.
Lecturer di Innovazione e Marketing in diversi atenei, tra cui l’Università Bocconi e l’Imperial College Of London. Esperto di marketing, business e tecnologie, consulente per la trasformazione digitale, relatore internazionale con oltre 400 eventi in oltre 20 Paesi, è autore dei best seller “Mind The Change” (2017), “Marketing Thinking” (2017) e “Marketing Psychology Behind Growth” (2018), Cromosoma Innovazione (2019), Doppia Accelerazione (2021) e Customer Success (2022).
Prima cofondatore dell’agenzia creativa LabNext, che la rivista Wired ha definito “The Italian Think Tank” per il suo lavoro pionieristico sull’e-learning e il brand entertainment, e poi di Eitherland, che crea luoghi di lavoro all’aperto progettati per promuovere creatività, attenzione, benessere e collaborazione, è curatore della serie della MIT Sloan Management Review “The Future Of Management”.
È stato Membro del Comitato Scientifico di Piccola Industria Confindustria, oggi Alberto Mattiello entra a far parte anche, come amministratore indipendente, del Consiglio di Amministrazione di CEF Publishing, la società del Gruppo Ebano leader in Italia nella progettazione ed erogazione di corsi di formazione professionale online, con più di 50mila iscritti negli ultimi 11 anni.
“Abbiamo voluto Mattiello come consigliere indipendente perché questo per noi rappresenta un aspetto assolutamente fondamentale: ci consente, e gli consente, di avere massima libertà, e osare nel suo approccio al cambiamento” commenta Carlo Robiglio, Presidente di Ebano S.p.a. ed ex Vicepresidente di Confindustria.
“Quella che operiamo oggi con Ebano è una scelta molto precisa: inserire in azienda competenze e persone che possono portare stimoli, contaminazioni, sollecitazioni, innovazione, visioni, apertura mentale. Con la sua esperienza di altissimo livello, soprattutto internazionale, Mattiello può offrirci anche una visione alternativa, critica, di anticipazione del futuro, perché ciò che avviene oggi negli Usa arriverà anche da noi”.
L’Italia è il Paese delle piccole e medie imprese, spina dorsale del nostro sistema, che l’hanno resa grande con tutte le loro particolarità ed eccellenze, ma la nostra economia ora si trova in un momento di forte transizione.
“Ora più che mai serve ripensarsi e mettersi in gioco, perché solo così si cresce. Un’impresa che non cresce è destinata a fallire – prosegue Robiglio –. Il cambiamento implica accettazione a ridefinirsi, ma anche nuovi investimenti in innovazione, tecnologie e competenze. Come farlo? Mettendosi insieme, contaminandosi, dando sempre più vita a grandi filiere del Made in Italy dove le micro, piccole e medie imprese crescono grazie a una realtà più grande in grado di ispirarle ad aprirsi. Oggi la sfida globale si vince solo facendo sistema”.
Da qui la necessità di una cultura di impresa e di formazione continua dell’imprenditore, che non può più essere scissa dal concetto di responsabilità sociale. “La chiave di volta per cambiare e innovare è senza dubbio la formazione. È questo l’unico ‘farmaco’ che quotidianamente dobbiamo somministrare a dosi elevate per uscire dalla ‘pandemia della stagnazione’” conclude Robiglio.
In questo momento in Italia il confronto sul tema del lavoro sembra fermo su stipendi e difficoltà di trovare personale. Ma è una visione limitante, che rischia di perdere di vista il problema vero: cioè che sempre più persone sono insoddisfatte del proprio lavoro e vogliono cambiare.
Negli ultimi 3 anni su Google è cresciuta del 188% la ricerca della parola “Upskill”. Una recente ricerca del Politecnico di Milano evidenzia come solo il 5% degli italiani è soddisfatta del proprio lavoro, nel mondo il 10%. Circa il 21% delle persone intervistate ha detto che sta pianificando di cambiare lavoro quest’anno. Non solo: il 30% di chi ha cambiato lavoro nell’ultimo anno non l’ha fatto per stipendio o benefit, nel 40% dei casi l’ha fatto per burnout e il 30% di questi non sapeva nemmeno cosa sarebbe andato a fare dopo aver lasciato.
Questo dimostra che Great Resignation, Big Quit e Yolo Economy (l’acronimo di “You Only Live Once” reso popolare dal rapper Drake) sono temi caldissimi oggi. “Il Covid ci ha cambiato la testa in qualche modo” spiega Mattiello, “non a caso tra chi ha avuto il Covid, il gruppo di chi pianifica di cambiare lavoro nei prossimi 6 mesi passa dal 21% al 30 %. Questa tendenza al cambiamento, alla realizzazione personale, è una rivoluzione che può mettere in crisi tanti sistemi nel mondo del lavoro, per questo serve prepararsi, soprattutto lo devono fare gli imprenditori”.
Alberto, come si affronta la grande rivoluzione che sta già avvenendo nel mondo del lavoro? Investendo sulla formazione continua: l’unico modo in cui le persone possono cercare di ricollocarsi in un sistema che sta cambiando è potersi formare. Per dare un numero, nel mondo retail, tra i più colpiti dalla pandemia, Amazon investirà 1 miliardo e 200 milioni da qui al 2025 in formazione, Walmart 5 miliardi in iniziative di upskill entro il 2026. Il lavoro non lo rubano gli algoritmi, ma solo l’inettitudine al cambiamento. C’è bisogno di un cambio di narrativa: ci sono economie che senza intelligenza artificiale e robotica rischierebbero di non poter più esistere, facendo sprofondare milioni di persone nella povertà. L’innovazione porta con sé potenzialità straordinarie, ma serve una grande trasformazione culturale. Le ‘monete’ con cui dovremo pagare sono molto diverse oggi e lo saranno sempre di più nei prossimi anni: i fattori che ci spingono a scegliere un lavoro sono personali, legate alle nostre passioni, al tempo libero, e solo in parte allo stipendio, anche se ovviamente resta un tema fondamentale. La formazione diventa allora un tema chiave per ricostruire una società adeguata al tipo di evoluzione che stiamo vivendo. Una formazione sempre più ibrida, sempre di più online, on demand, digitale, self service, con tanti diversi formati, che il settore ha già imparato ad esprimere in questi due anni di pandemia.
Tentando una sintesi, quali sono le 5 più grandi conquiste dell’innovazione degli ultimi anni?
La più grande è l’open innovation, cioè la capacità dei manager di comprare innovazione dall’esterno e portarla dentro alle imprese. Questo è evidente in un dato: nel 2021 si è registrato il record di investimenti venture capital in startup, con un boom incredibile. Dal 2015 al 2020 la crescita è stata sostanzialmente organica, attorno al 10-15%, l’anno scorso c’è stato il raddoppio, con un 111% in più. Oggi l’innovazione non è più un luogo chiuso, difficile da interpretare e rischioso, ma aperto, in cui è facile comprare innovazione. Le altre grandi conquiste sono l’automazione, intesa come intelligenza artificiale e robotica, e il cloud, un sistema essenziale di democratizzazione dell’innovazione che rende il cambiamento più facile, più veloce e più economico. Infine, direi il web 3.0, che porta a un cambiamento epocale nella proprietà di un asset, che non è più a garanzia di un ente centralizzato, ma di una community. Questo è uno stravolgimento totale su come si scambiano informazioni e valore nel mondo digitale. La tecnologia blockchain ora è in una fase più matura, anche se non ancora mainstream, e si cominciano a vedere gli effetti di un modello di business basato sulla proprietà di una community, in cui tante persone possiedono un pezzo dell’asset digitale e possono intervenire sulla sua governance.
Come deve cambiare l’ecosistema imprenditoriale per creare un terreno fertile all’innovazione? La verità è che non si sa da dove iniziare. Il fatto che sia maturato il mondo dell’open innovation è fantastico, ma le aziende hanno il problema che non sanno da dove cominciare. Si rendono conto di dover fare molte cose per innovare, ma non si sa quale direzione intraprendere. Il problema è che l’innovazione è molto eterogenea, e questa ipercomplessità porta con sé il rischio che molti si fermino. Per questo è fondamentale costruire una pipeline di innovazione: creare modelli concettuali che aiutino gli imprenditori a capire da dove iniziare e cosa non si può assolutamente perdere dentro alla propria azienda per compiere quel salto. Servono modelli che aiutino le aziende a costruire delle road map di innovazione.
Tu ci stai lavorando?
Sì, per farlo ho preso ispirazione dagli acceleratori, abituati a lavorare in questo modo da tempo. Un acceleratore ogni settimana valuta decine di start up che chiedono di essere aiutate con investimenti e formazione a scalare un mercato. Quando un’azienda inizia a comprare innovazione, è essa stessa un acceleratore: l’accelerazione avviene dentro al proprio sistema.
Come siamo messi in Italia sul fronte dell’innovazione? Siamo indietro?
Lo siamo, ma attenzione: può anche diventare un vantaggio. L’innovazione purtroppo ‘salta’ l’Europa: arriva qui dopo essere stata in altri mercati. Una startup straniera, quando è pronta ad arrivare sul mercato non verrà mai in Europa: prima va in Usa, Cina, lo faceva in Russia, dove sapeva di aver un mercato con un’unica lingua, un unico sistema legislativo e centinaia di milioni di potenziali clienti. L’Europa da questo punto di vista ancora non esiste. Quando finalmente l’innovazione arriva in Europa, prima lo fa in UK poi nel resto dei Paesi. Quindi sì, c’è un tema strutturale, perché in Italia l’innovazione arriva in media con un ritardo di 2 anni. Ma se impariamo a sfruttare questo aspetto, monitorando cosa succede negli altri mercati, di fatto abbiamo un’anticipazione di quanto sta per accadere all’interno del nostro sistema. Bisogna imparare a farlo, però, e anche in questo caso la formazione può fornire gli strumenti per colmare questo gap.
In questo scenario, quali saranno i 5 valori irrinunciabili dei manager del futuro?
Prima di tutto gli imprenditori devono diventare data driven: devono imparare a farsi guidare dai numeri, avere un approccio basato sui dati, per prendere decisioni informate, a partire da fatti verificati. Non significa non far leva su intuizione e creatività, ma saper sfruttare le piattaforme e le informazioni al meglio. Secondo, dovranno sempre più lavorare in modo crossfunzionale. Ancora oggi le aziende sono divise in team diversi, dove la relazione è molto faticosa, lenta: logistica, produzione, marketing ecc. hanno obiettivi diversi, sistemi di dati diversi e mentalità diverse. Le aziende del futuro saranno molto più fluide: per risolvere i problemi ci saranno team crossfunzionali che lavorano in modo veloce integrandosi. Terzo, i manager dovranno essere variocentrici e customercentrici: le aziende sono ancora prodotto-centriche o processo-centriche, serve invece un cambio di prospettiva, le imprese devono essere incentrate sul valore e sulla responsabilità del valore che generano nel mercato dei propri clienti. Quarto valore imprescindibile, trasparenza e orizzontalità: i manager devono essere in grado di lavorare in contesti dove il dato è messo molto più a disposizione di tutti, l’informazione è diffusa, le gerarchie per come le abbiamo sempre intese perdono di significato. Questo è il cambiamento culturale più grande di cui ha bisogno il sistema manageriale moderno. Infine, la capacità di costruire fiducia: in un mondo digitale, esiste e cresce solo chi riesce a creare fiducia, perché tutto è verificabile e misurabile.
È possibile delineare 5 soft skill che dovremo avere per competere in un mercato sempre più innovativo?
Innanzitutto empatia e sapersi prendere cura degli altri: il mondo del futuro è fatto di Prendersi cura di tutto. Persone, pianeta, società… Se non si sviluppa, non si può avere successo in un’economia che sempre più sta andando in quella direzione. Poi flessibilità mentale: è auspicabile che la gente cambi idea spesso, di fronte invece all’irrigidimento e alla polarizzazione a cui siamo continuamente sottoposti. Altra skill senza dubbio l’entusiasmo verso il cambiamento, cioè avere un’attitudine positiva al cambiamento anche se è, in qualche modo, contro natura. A cui aggiungo la capacità di relazionarsi con mondi diversi: il mondo del lavoro sarà sempre più intercorrelato, inglobante, in Italia questo sarà uno step fondamentale perché siamo molto indietro. E infine una buona dose di creatività.
Quali saranno le 5 caratteristiche del lavoro del futuro?
Prima di tutto, il lavoro non sarà più routinario: un lavoro fermo che si ripete sempre uguale non ha più senso di esistere in una società che innova. Secondo, funzionerà tutto ciò che è manuale ma con un grandissimo livello di personalizzazione e customizzazione: tutta una serie di lavori non possono essere automatizzati, ma qui servirà sempre più variabilità e altissima qualità, penso a tante eccellenze italiane, come nella moda sartoriale ad esempio. Poi, tutto ciò che ha a che fare con l’automazione, in qualunque ambito, tutto ciò che ha a che fare con l’ambiente – il climate tech cresce come velocità di investimenti più dell’intelligenza artificiale – e la sicurezza, cyber soprattutto ma non solo, perché il digitale si porta dietro tanti rischi diversi.
Per concludere, quali saranno le 5 grandi sfide per l’innovazione da qui ai prossimi 10 anni? Dal punto di vista del business l’energia, la sostenibilità e il redesign delle catene globali. Poi ci saranno altre due grandi sfide culturali e sociali: il reskilling, con una formazione costante, che assume un valore più alto, sociale, e infine un equilibrio tra digitale e nuove generazioni, per fare in modo che bambini e ragazzi possano prendere solo gli aspetti positivi di questa grande rivoluzione che si chiama innovazione.
Miriam Carraretto
Journalist & Communication Strategist